“Un post non può sostituire una denuncia”

Pubblicato da La Stampa, 18/04/2018, Federico Genta, Torino
Boom di segnalazioni su Facebook, le forze dell’ordine: così si rischia di non avere giustizia

Quando ci si mette davanti a una tastiera è meglio allora ricordarsi che il Codice non fa distinzione tra giornalisti o semplici utenti della rete quando un messaggio è in grado di raggiungere una platea ampia e, per questo, incontrollabile.

Una moglie chiede giustizia dopo che il marito ha rischiato seriamente la vita per un infarto, mentre su un campetto da calcio di Moncalieri il figlio diciassettenne veniva aggredito da un papà. Un altro padre che racconta un episodio di bullismo ai danni della figlia dodicenne, strattonata e spinta a terra da un gruppo di coetanei. Ancora una donna che diffonde la fotografia del suo presunto molestatore, incontrato più volte sul bus che la porta ogni giorno al lavoro.

 

Denunce a metà. Che prima ancora di finire in un verbale delle forze dell’ordine, vengono pubblicate sui social. Così ottengono consensi, scatenano la curiosità e la reazione spesso fuori ogni logica di buon senso di amici e conoscenti, fino a quando poche righe di post diventano un boomerang non più controllabile. Mentre gli investigatori, quelli veri, rischiano di restare al palo senza quella querela necessaria per iniziare le indagini.

 

Così, il rischio reale, è che le stesse persone che usano i social per chiedere giustizia, magari rendendo pubblica in assoluta buona fede la personale ricostruzione di un fatto, si ritrovano a loro volta indagate, se non per calunnia, almeno per la violazione della privacy. Che sia quella di un computer oppure di un telefono cellulare, quando ci si mette davanti a una tastiera è meglio allora ricordarsi che il Codice, nel regolamentare la «manifestazione di pensiero», non fa distinzione tra giornalisti o semplici utenti della rete quando un messaggio è in grado di raggiungere in pochi secondi una platea ampia e, proprio per questo, incontrollabile.

 

Lo sa bene l’avvocato torinese che, alla fine dello scorso marzo, aveva pubblicato alcune sue personali considerazioni sull’operato dei vigili urbani, che l’avrebbero aspettato sotto casa per un controllo approfondito del suo scooter, dopo che era stato coinvolto in un breve diverbio la mattina precedente, sempre con uno degli stessi agenti. Va detto che il legale,, è stato attendo a mascherare i volti dei vigili e a non andare oltre il consentito. E il suo sfogo è davvero finito in un esposto presentato in Procura. Ma la storia della «spedizione punitiva» ha raggiunto in pochi giorni trentaquattromila persone. Vale a dire poco meno dell’intera popolazione di Pinerolo. Questo, senza contare le condivisioni, che hanno superato quota 16 mila.

 

«Un post su Facebook o un tweet non equivale a una denuncia – confermano i carabinieri – Spesso le vittime o presunte tali ritengono che questo sia sufficiente per avviare l’azione penale. Non è così. I social non possono e non devono sostituire le forze dell’ordine. Invitiamo i cittadini a non sottovalutare questo aspetto e di rivolgersi sempre alle forze di polizia subito dopo che un fatto è accaduto. La collaborazione dei cittadini è fondamentale ed è il miglior contributo possibile per rafforzare la sicurezza»

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